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27/06/2023
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Canzone del mese
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Cultura
I Still Haven’t Found What I’m Looking For | Canzone del mese
In una delle loro canzoni più belle, gli U2 ci portano in un viaggio nello spazio, nelle relazioni e nello spirito. Cos’è che tutti cerchiamo? E soprattutto, alla fine del viaggio, riusciremo a trovarlo?
Era solo questione di tempo prima che gli U2 arrivassero in questa rubrica. E lo fanno con la mia canzone preferita del loro repertorio, tratta dall’album del 1987 The Joshua Tree, a detta di molti il migliore della band, tanto che “Rolling Stone” lo ha messo alla 26esima posizione dei 500 migliori album di tutti i tempi. I Still Haven’t Found What I’m Looking For parla di un viaggiatore inquieto che non trova mai ciò che cerca, nonostante tutte le esperienze che vive. Sul ritmo di batteria che assomiglia al galoppo di un cavallo, sembra quasi di condividere il viaggio con lui.
Da giù a su, da fuori a dentro
Il percorso del nostro viaggiatore è tracciato chiaramente dalle strofe del testo: nella prima dice di aver “scalato montagne” e “corso nei campi”, di aver strisciato e “scavalcato i muri di questa città”. È una strofa fisica, di movimento corporeo. Nella seconda il viaggio è nell’umano, nelle relazioni (“Ho baciato labbra dolci come miele”) e nell’interiorità (“Ho sentito la guarigione sulla punta delle sue [femminile, ndr] dita”). Poi in un attimo il campo semantico si allarga alla spiritualità: “Ho parlato con la lingua degli angeli / ho tenuto la mano di un diavolo”.
È cominciato come un viaggio, uno spostamento nello spazio, e si è trasformato in un cammino umano e spirituale, che approda alla quarta strofa: “Hai rotto i legami / hai spezzato le catene / hai portato la croce / della mia vergogna / tu sai che ci credo / ma non ho ancora trovato quello che cerco”.
Il viaggiatore ha trovato la fede e ha così concluso il suo percorso? No, gli U2 non ci stanno dicendo questo. Hanno scelto di chiudere la canzone con una dissolvenza, con il volume che cala lentamente fino al silenzio, mentre Bono continua a ripetere il verso “non ho ancora trovato quello che cerco”. Perché allora citare in modo così esplicito la vicenda di Gesù? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare all’inizio, alla partenza.
In foto: gli U2 in tour nel 2017
Il viaggio verso l’ideale
Che cosa ci fa cominciare un viaggio? Qual è la ragione profonda di molte partenze? Tutti, come il viaggiatore della canzone, siamo in cerca di qualcosa. Anche quelli che riempiono di foto ricordo il proprio account Instagram, che forse cercano attenzione, o chi nei viaggi evade tra discoteche, alcol e droghe, che forse cerca di superare un senso di solitudine.
Come per il viaggiatore della canzone a volte è difficile avere consapevolezza di cosa cerchiamo veramente. Ma, qualunque cosa sia, pian piano emerge, conducendoci di esperienza in esperienza a una ricerca più profonda (su questo, vale sempre la pena di rileggere La storia infinita di Ende).
Cosa c’è alla fine del viaggio? Difficile a dirsi. La canzone lascia immaginare che è qualcosa di perfetto, di infinito, di universale: un ideale di completezza che riusciamo, con fatica, a immaginare… ma assolutamente irraggiungibile. Forse se questo brano è così bello (secondo Spotify è il secondo più amato della band) è perché esprime uno dei drammi della condizione umana. L’umanità è chiamata verso questo mistero, lo desidera, lo vede all’orizzonte, ma non riesce a conquistarlo perché è zavorrata dalla proprie imperfezioni e mancanze. Può arrivare solo fino a un certo punto, vicinissima alla fine.
In foto: gli U2 nella cover dell’album The Joshua Tree
L’ultimo passo del viaggio
Ecco spiegata l’ultima strofa della canzone: se l’uomo può arrivare solo a un passo dalla completezza, qualcuno deve andare a prenderlo per coprire quell’ultima, piccola, ma insormontabile distanza. Gli U2 suggeriscono che questa figura sia Gesù, che rompe i sigilli, spezza le catene e si fa carico delle nostre mancanze, eliminando quell’imperfezione di fondo che ci impedisce di raggiungere la perfezione.
“Tu sai che ci credo / ma ancora non ho trovato quello che cerco”: così si conclude il brano. Potrebbe sembrare pessimista: anche armati della fede più forte, il percorso delle nostre vite resta faticoso e frustrante. Il dubbio che siamo destinati a non ottenere mai la completezza che cerchiamo resta accanto a noi come un fastidioso compagno di viaggio.
Eppure credo che quel “non ho ancora trovato quello che cerco, non ho ancora trovato quello che cerco” ripetuto all’infinito sia, più che un lamento di rassegnazione, una chiamata a perseverare, a proseguire, a vivere il dubbio come normale dimensione della fede e della vita.
Come uno sposo che davanti all’altare si chiede come farà ad amare per sempre la sposa; o come un missionario che, ricevuta la sua destinazione, si interroga su come farà a vivere in un Paese straniero qualunque cosa accada, anche a costo della vita. Sarebbero dei folli, se si illudessero di essere sempre perfetti e infallibili. Ma il dubbio non li ferma nel loro proposito di tentare, non arresta la loro ricerca. Perché, a ben vedere, smettere di cercare sarebbe smettere di credere in un mondo migliore, in una società migliore, in un’umanità migliore. Sarebbe smettere di essere umani.
di Gabriele Monaco