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20/06/2023
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Per una nuova educazione
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Educazione
Alfabeti relazionali
Una serie di parole chiave può guidarci nella difficile sfida di educare giovani fragili in una società aggressiva. Un alfabeto per tessere relazioni generative
Il tratto di percorso compiuto fino a qui ha toccato alcuni aspetti importanti del nostro essere formatori in cammino, sempre interpellati dalla complessità e dalla rapidità delle trasformazioni e dalla difficoltà di metabolizzarle. C’è un tempo per tutto, per correre e per rallentare, per studiare e per meditare, un tempo per lo stupore e un tempo per la concentrazione, un tempo per temere ed un tempo per avere coraggio.
Abbiamo bisogno di fare silenzio in noi per coltivare l’ascolto profondo, per lasciare emergere le voci interiori, assediate dal rumore di fondo continuo che ci trascina in un vortice febbrile di stimoli. Se molliamo la presa e allentiamo la tensione, riusciamo lentamente a focalizzare meglio i bisogni più urgenti: abbiamo necessità di raccoglimento per formulare le risposte più adatte all’ansia infinita che divora i nostri adolescenti.
È l’ansia che predomina accanto al panico quando le coordinate dell’azione confliggono con le esigenze profonde, con le aspettative pressanti che ignorano il grido di dolore, la fame dell’anima. I nostri giovani non riescono a respirare, non dilatano il cuore, sono come vetrate di cattedrali centrate da un sasso: vanno in frantumi sotto gli occhi a volte distratti, a volte troppo protettivi o esigenti degli adulti che li nutrono o li educano. Alcune parole chiave possono guidarci in questo cammino difficile.
Silenzio
Il silenzio è una potente occasione di ricarica delle energie, di definizione del sé quando si spegne il fragore delle urla; il silenzio non è vuoto, non è privazione, ma è un mormorio incessante che viene da dentro ed ha la capacità di guarire le ferite profonde, quelle che non vogliamo vedere, che ci affanniamo a coprire con lo stordimento della confusione.
Il silenzio insegna l’ascolto e il ritmo del respiro, restituisce ai battiti il loro tempo giusto, non forzato o esagitato. Fluttuiamo in una società ipereccitata ma anestetizzata, che per sentirsi viva deve alzare i toni, urlare fino allo stordimento. Il silenzio fa paura perché ci denuda, ma ciò che conta avviene spesso nel silenzio: la foresta che cresce, il seme che germina nel terreno, il frutto del grembo. Fare esperienza del silenzio, anche collettiva, comunitaria, riconcilia profondamente con se stessi e con gli altri. Il silenzio prepara all’empatia, alla condivisione.
Lentezza
Al concetto del fast che aveva drogato ed illuso la nostra smania di onnipotenza, oggi si contrappone il valore opposto dello slow, della lentezza come operosità silenziosa ma carica di significato, come rispetto dei tempi, dei luoghi, delle persone, della natura, come risacralizzazione dei gesti e delle azioni. La lentezza non è pigrizia né indolenza, ma pienezza del tempo impiegato per vivere con il ritmo che una parte di noi, la migliore, sente giusto, adatto.
Il cervello è una macchina lenta, l’apprendimento avviene in un clima di concentrazione tenace, paziente, la memoria si mette in moto se si allea con le emozioni che agiscono con un loro dinamismo non accelerato, essenziale per capire, comprendere, amare. Occorre rispettare i tempi, le modalità personali di reazione, le pause, anche la noia, madre spesso nascosta e disprezzata della creatività. Anche a scuola, correre come imperativo categorico non fa bene: la fretta diventa ansia, si fa frustrazione, timore paralizzante. Occorre prendere tempo, quello che serve per crescere.
Premura
È una qualità dimenticata, rimossa, necessaria all’educatore o al genitore che veglia sulla crescita della persona. Significa intuire i bisogni e le necessità, seguire con sollecitudine e con discrezione l’evoluzione delle situazioni, saper cogliere le domande non formulate, le richieste non espresse, preparare i contesti più adatti perché il non detto possa trovare lo spazio giusto di rispetto e accoglienza.
Avere premura non significa preoccuparsi eccessivamente o indagare o investigare, ma è l’atteggiamento di chi alla giusta distanza scruta i segnali di un cambiamento, di un silenzio, di una tristezza apparentemente immotivata. È una qualità della presenza necessaria per non sovrapporre ai bisogni dell’altro, che l’altro non sa dire, la nostra superiorità e la nostra asimmetria nel tentativo di trovare risposte prefabbricate alle domande più urgenti.
Cura e responsabilità
È l’atteggiamento necessario per conservare la vita, custodirla e guidarla dalla culla alla tomba. Secondo Margareth Mead, la grande antropologa, la civiltà nasce non quando l’homo sapiens produce manufatti, o scrive o costruisce o impara nuove tecniche, ma quando è in grado di prendersi cura di un membro anziano o malato del gruppo: è il femore rotto e rinsaldato che ci rende umani autenticamente, perché il ferito è stato nutrito e sostenuto nei tempi della sua infermità e non è stato abbandonato.
Avere cura ci tiene in vita, riduce il nostro egoismo di specie, relativizza la nostra presunzione, favorisce la creazione di una comunità capace di condividere e partecipare. La postura della cura è curva verso l’oggetto che suscita attenzione, non è rettilinea e verticale come l’uomo vitruviano, ma capace di sporgersi e di tendere le braccia, come la Madonna di Leonardo che insegna al Bambino a camminare lasciando che la loro interazione disegni una ellissi a due fuochi, in una reciprocità asimmetrica.
L’atteggiamento di cura in tempi di Antropocene vorace è l’unico atteggiamento possibile per permettere la sopravvivenza degli ecosistemi, della biodiversità; non è una moda o un optional, ma l’assunzione e la maturazione di una coscienza planetaria che impone di ricostruire un’alleanza con le altre specie viventi e il loro diritto ad esistere.
Umiltà
Nella galassia di sentimenti, atteggiamenti e posture che illustrano e rappresentano questa virtù rimossa, dimenticata, disprezzata, si possono includere altri comportamenti come il pudore, la discrezione, la misura, la riservatezza, la modestia. Essere umili significa non far coincidere il senso di sé, il valore di quello che si pensa con l’esibizione, l’ostentazione, l’apparenza e l’apparire. L’umiltà ha lo sguardo acuto sulla realtà, sa operare una cernita sicura e serena tra essenziale ed inessenziale, tra giusto e sbagliato, tra vero e falso.
Nemica dell’esteriorità e del vanto si associa alla riservatezza, alla misura nell’uso sconsiderato della parola per offendere o nuocere, ma ha soprattutto un pregio fondamentale sul piano educativo: restituisce la giusta proporzione, fonda l’autostima sul rispetto di sé e degli altri e alimenta il senso del pudore, come difesa dall’intrusione e dalla sovraesposizione mediatica che ha un potere nullificante in chi ne resta abbagliato. Si ha urgente bisogno di restituire ai giovani la sacralità dei gesti per difendere l’intimità, altro ambito saccheggiato e violato dalla pervasività aggressiva del mondo delle immagini in cui siamo immersi.
Sobrietà e senso del limite
Tutto ha un limite, nulla è infinito, perpetuo, eterno: le risorse, il tempo, le occasioni, il dolore. Comprenderlo è una lezione che migliora la qualità del vivere. Occorre riscoprire l’astinenza e il digiuno come pratiche di disintossicazione: porsi dei limiti non significa deprimersi, ma significa valorizzare e focalizzare meglio ciò che si può fare al di qua del limite che diventa, in questo modo, il bordo che definisce e fa esistere, tracciando il rapporto tra il dentro e il fuori; nel limite si riscopre il valore della relazione, dell’attesa dell’altro, dello spazio necessario per non invadersi a vicenda. Accettare il limite ci umanizza, consente di fare spazio per chi verrà dopo, permette di arginare il delirio di onnipotenza e l’illusione dell’infinita espansione del sé. Significa coltivare la giusta misura.
Gratitudine
È un atteggiamento che presuppone la coscienza di quanto si è ricevuto, comporta il riconoscimento del bene e del dono e la riconoscenza come comportamento conseguente: tutto è dato e nulla è dovuto; il nostro essere nati non è dipeso da una nostra scelta, il nostro essere tuttora vivi dipende dalla capacità di cura e di attenzione che qualcuno ha avuto per noi, dalla volontà fedele di accoglienza e di ospitalità.
Esserne consapevoli orienta eticamente le scelte di ricevere, ricambiare, farsi carico. È la tessitura di un difficile rapporto intergenerazionale che lo psicanalista Francesco Stoppa chiama “la restituzione”. Dalla gratitudine nascono la mitezza, come approccio volontariamente disarmato ma non inerme ed inerte, la tenerezza, il coraggio di essere fragili.
desiderio
La perdita del desiderio è un’espressione usata in ambito sessuologico per indicare il declino dell’attrazione in una coppia, come se l’unico campo del desiderio debba essere necessariamente quello, come se una coppia dovesse concentrare le proprie energie esclusivamente nella conservazione o nell’intensità di quell’aspetto della relazione. In realtà la questione è più ampia e ha a che fare con l’incapacità di attendere, di coltivare la speranza, di adoperarsi per il raggiungimento di un fine ulteriore. Il desiderio muove all’azione, insegna a rialzarsi, a resistere, a guarire, alla ricerca, alla generosa offerta di sé, è gestazione del futuro e della sua immaginazione. Il desiderio è alleato del coraggio di affrontare le grandi sfide educative che incombono, ricostruendo alleanze e tessiture tra maschile, femminile e tutte le sfumature di gender, recuperare il dialogo tra generazioni, ricostruire le reti di prossimità per non soccombere alla paura.
Un racconto del giornalista armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007, descrive questa costellazione di atteggiamenti. Alla vigilia della deportazione e del genocidio dell’aprile 1915, le famiglie armene furono costrette a partire e ad abbandonare tutti i loro beni. Un anziano, però non preparava come gli altri i bagagli, ma era intento a riparare la trebbiatrice. I figli e i nipoti lo sollecitano a sbrigarsi e a rinunciare ad una riparazione inutile, visto che sono in procinto di partire per sempre. Ma il vecchio dice: “Il grano è quasi maturo, chi verrà dopo potrebbe non riuscire a riparare la trebbiatrice e il mio lavoro e il raccolto andrebbero perduti. Per questo la riparo”.
Il vecchio ama ciò che ha fatto, anche se non potrà goderne. Lascerà la macchina funzionante a chi verrà dopo e che lui non sente nemico. È di questa responsabile, umile e potente libertà interiore che abbiamo bisogno per educare i nostri giovani fragili.
di Antonella Fucecchi
docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale
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Per affrontare le sfide educative che bambini e ragazzi sollevano dobbiamo passare dalla logica dell’ “io” a quella del “noi”. Solo nella relazione con l’altro possiamo scoprire la nostra umanità. Per questo, al centro delle nostre proposte formative per il prossimo anno scolastico, ci sono la conoscenza di sé, l’incontro con l’alterità, l’apertura al mondo e alla sostenibilità.