La sfida dell'intercultura pt.2

L'Italia, anche se non ci piace ammetterlo, è un Paese ancora infettato dal razzismo. Questo perché non ha mai fatto i conti con il suo passato colonialista prima e fascista poi. Un passo che è urgente fare adesso per creare una vera intercultura nella società.

Un cantiere aperto e sempre in movimento

La centralità dell’approccio interculturale in ambito educativo non è più un optional, ma una vera necessità, dettata dall’urgenza di porre i presupposti per la formazione di un cittadino capace di affrontare le sfide di una società complessa, caratterizzata da fluidità e da un forte mobilità, che riguarda sia i migranti approdati nel nostro Paese, sia i giovani italiani, gli expat, che spendono titoli e preparazione culturale in Paesi diversi da quelli di origine. L’evoluzione sociale sempre più accelerata e la rapidità delle trasformazioni globali su vari fronti richiedono abilità e capacità da acquisire precocemente sul piano cognitivo e relazionale.

Assumere una postura interculturale in campo aperto prescinde dalla presenza di bambini di origine straniera a scuola, ma richiede una radicale revisione del punto di vista, proprio a cominciare dai modelli di trasmissione del sapere.

Decentrare lo sguardo etnocentrico e spostare l’asse cognitivo, decostruire le narrazioni dominanti, denunciare i meccanismi di segregazione di interiorizzazione, prendere coscienza dei traumi storici subiti ed inflitti, fare i conti con le rimozioni sono posture educative che risvegliano l’occhio pigro, come dicevamo nel contributo precedente, per acquisire la forma mentis che permetta di saper vivere in contesti plurali, sia nel Paese di nascita, sia in contesti lavorativi in Paesi diversi. Ma soprattutto la competenza relazionale che ne deriva è destinata ad arricchirsi e rimodularsi nell’ambito della vita intera, nell’ottica del life long learning e della formazione permanente.

Decostruzione e decentramento

Questa macrocompetenza ne contiene altre al suo interno: attitudine dialogica, orizzontale e non verticale o gerarchica o paternalistica; capacità di relativizzare il punto di vista e di praticare un ascolto attivo; saper gestire e correttamente indirizzare il conflitto; trovare soluzioni creative, condivise e partecipate alle situazioni di attrito che la convivenza in contesti plurali necessariamente comporta. Ma sono abilità e atteggiamenti che non si improvvisano, devono essere nutriti e praticati come stili di relazione permanenti, non applicati solo in alcuni casi o in alcuni settori.

La pedagogia interculturale lavora sui modelli di trasmissione del sapere, sulla decostruzione delle narrazioni dominanti, sui pregiudizi inconsci, sui depositi di precognizioni, sul quel sapere incorporato latente spontaneamente etnocentrico che alimenta stereotipi profondamente interiorizzati.

Un atteggiamento interculturale credibile non si limita a un generico esotismo o ad una fascinazione per il diverso che sconfina nella folclorizzazione. Nell’enfasi spesso eccessiva attribuita alle differenze etniche, si produce una narrazione che, pur con le migliori intenzioni, rischia di essere inferiorizzante. Anche la prospettiva del dialogo e dell’ascolto ha bisogno di essere rivista e riconsiderata perché a volte paternalistica e poco disposta a concedere la parola all’interlocutore; il rischio è immaginare l’altro e conformarlo alle proprie esigenze per adattarlo e piegarlo ai modelli imperanti o per collocarlo, socialmente, là dove serve, specie se donna. L’intersezionalità permette di cogliere gli intrecci tra dispositivi inferiorizzanti: colore, genere, censo, appartenenze religiose.

Nel caso dell’immigrazione e della gestione dei relativi processi, la cosiddetta via italiana si sta orientando verso la “inclusione subordinata”, cioè la tendenza ad offrire possibilità di inserimento in base ad esigenze lavorative o economiche. La società maggioritaria decide unilateralmente che l’immigrato avrà uno spazio ed una posizione, ma determinata strumentalmente dal ruolo che gli verrà attribuito, cioè l’ultimo gradino della scala sociale. In questo caso non si sta costruendo un modello basato sulla partecipazione e sulla parità, ma sull’opportunismo e la subalternità, e soprattutto sull’immobilità sociale.

La mancata revisione dei criteri che permettano ai giovani di seconda generazione di ottenere la cittadinanza dopo il ciclo di formazione scolastica è il segnale più evidente di questa chiusura, che lega la partecipazione alla vita politica del Paese al sangue. Nonostante sia una battaglia sostenuta a partire dagli anni novanta, nessuna forza politica ha compiuto questo passo necessario per raggiungere gli obiettivi raccomandati dai numerosi documenti ministeriali  emanati a partire proprio dagli anni novanta.

La scuola vive questa ipocrisia insopportabile: considerare gli studenti dotati di pari diritti e doveri per poi consegnarli, il giorno dopo il conseguimento del diploma, alla questura che li mette in fila per il permesso di soggiorno.

Non sono razzista, ma razzializzo

Il primo passaggio è il confronto con alcune verità rimosse: dobbiamo ammettere che esiste nel nostro Paese una questione largamente irrisolta che riappare e scompare, legata ad un razzismo inconscio, incorporato, latente, che si fa razzismo istituzionale. Lo studioso che ha meglio evidenziato e ricostruito i processi storici che hanno alimentato il mito degli italiani “brava gente” è lo storico della mentalità Francesco Filippi, in una triade di testi dai titoli immediatamente efficaci ed eloquenti che vale la pena di citare, non in nota:  Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (2019); Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (2020); Noi però gli abbiamo fatto le strade: le colonie italiane tra bugie, razzismi ed amnesie (2021).

 

In foto: Francesco Filippi

Lo scrittore affronta la questione delle rimozioni, delle pagine dimenticate della nostra storia. Dal 1870 in poi siamo stati visceralmente colonialisti perché, è duro riconoscerlo, nell’elaborazione del mito dell’unità nazionale nascente e nel post Risorgimento, assumere un atteggiamento colonialista ci avrebbe accreditato in Europa; la conquista di terre oltremare avrebbe dimostrato di essere abbastanza “bianchi”, abbastanza superiori, molto prima dell’avvento del fascismo.

Il Fascismo ha portato a suppurazione processi già saldamente presenti nell’immaginario collettivo, presunzioni di superiorità che hanno prodotto in primis le leggi razziali del 1938 (ispirate alle prescrizioni vigenti nei ghetti), ma soprattutto, le leggi razziali del 1937 che hanno proibito le unioni tra italiani e donne africane e la possibilità di riconoscere e concedere la cittadinanza ai figli meticci.

Il mito della resistenza, consegnando al mondo l’immagine dell’antifascismo, ha contribuito, paradossalmente, ad abbuiare quelle pagine scure, ha occultato molte responsabilità evitando un’efficace resa dei conti con il passato. Destinato, infatti, a tornare.

Singolare che la mobilitazione antirazzista scatti sempre per episodi di discriminazione e di emarginazione di marca statunitense e che invece si resti prevalentemente indifferenti o torpidi di fronte a fenomeni di razzismo interno, letteralmente non visto, non percepito e rimosso. Eppure quasi ogni città ha un quartiere africano, una serie di strade intitolate alle città colonizzate o alle terre brutalmente sottomesse…

 

In foto: la statua di Indro Montanelli a Milano, imbrattata nel giugno 2013

Una revisione sana del proprio vissuto storico evita i rischi della cancel culture, intesa come cancellazione o rimozione di una passato violento, ma prende la strada del riconoscimento, della risignificazione di monumenti e strade anche attraverso opportuni percorsi di decolonializzazione. In questo senso l’Italia si sta muovendo con ritardo ma con tenacia, aprendo la strada ai postcolonial studies, già molto diffusi in altri Paesi, più lenti nel nostro, restìo a fare i conti con le proprie zone d’ombra. Ma è di questa onestà intellettuale che abbiamo bisogno per essere credibili come educatori, formatori e cittadini consapevoli.

 

di Antonella Fucecchi
docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale