Progetti a dimensione ivoriana

Un grande progetto avviato da fratel Fabio Mussi negli anni '70 si proponeva di fermare l'esodo verso le città e di cambiare la visione della vita e del lavoro. In contrasto con i valori importati dall'Occidente

La scelta di esportare in Costa d’Avorio, la «Svizzera d’Africa», il modello occidentale e francese in particolare, suscita ben presto una serie di problemi destinati a incidere sulla vita del popolo ivoriano.

Negli anni del boom economico le strategie governative rompono gli equilibri di una società imperniata sui legami tribali e su un’economia prevalentemente agricola. Nei villaggi gli alunni seguono le lezioni attraverso un televisore. L’insegnamento è in lingua francese, con la proposta di valori occidentali che finiscono per incentivare l’abbandono dei campi e l’esodo verso le grandi città, soprattutto ad Abidjan, alla ricerca di un posto nell’industria o, meglio ancora, nel terziario: «La scuola dovrebbe continuare l’educazione famigliare – osservava all’epoca suor Jeannine – qui invece… propone un modello di civiltà europeo, portando al disprezzo della tradizione africana».

Di conseguenza nel volgere di pochi anni si assiste a una preoccupante carenza di manodopera specializzata: tecnici, agricoltori, falegnami, meccanici.

 

In foto: alcuni giovani della scuola tecnica di Kossou

Il ruolo dei missionari

Di fronte a questa tumultuosa trasformazione, trovano spazio tra i missionari e i fratelli del Pime le sensibilità suggerite dal Concilio Vaticano II e insite nel concetto di inculturazione. Scuole, dispensari, falegnamerie, laboratori di taglio e cucito avevano accompagnato da subito il loro impegno di evangelizzazione in Costa d’Avorio, cui riescono ad affiancare alcune esperienze maturate sul campo.

Nel lebbrosario di Manikrò vivevano circa duemila persone. La diocesi di Gorizia aveva fornito una trentina di case, ma adesso si trattava di non fermarsi al diritto all’abitazione e alle cure mediche, ma di valutare la possibilità, se non di raggiungere la piena autonomia economica, almeno di limitare l’entità degli aiuti alimentari.

Arrivato in Costa d’Avorio nel dicembre del 1975, fratel Fabio Mussi inizia la sua esperienza a Manikrò insegnando ai lebbrosi tecniche più redditizie di coltivazione dei campi e di allevamento del pollame. In tal modo nel lebbrosario diminuisce la dipendenza dalla carità del Governo, delle popolazioni locali e delle comunità parrocchiali goriziane, mentre cresce l’autostima e migliorano il tenore di vita e le relazioni interpersonali.

Tanto basta per suscitare l’interesse di monsignor Vital Yao, vescovo di Bouakè, che si fa promotore, assieme a padre Gennaro Cardarelli, di un’iniziativa coraggiosa, mettendo a disposizione di fratel Mussi 800 ettari di terreno da sfruttare in collaborazione con i Fratelli della Sacra Famiglia di Chieri.

 

In foto: fratel Fabio Mussi nella fattoria di Brobo (1985)

Un progetto ambizioso

Il progetto era destinato a completarsi nel volgere di un decennio: i primi cinque anni dedicati alla realizzazione delle infrastrutture e alla messa in opera delle varie attività di formazione e di autofinanziamento, nei restanti l’obiettivo fondamentale sarebbe stato quello di trasferire l’intera responsabilità della gestione al personale ivoriano.

A pieno regime ci lavorano nove uomini e tre donne: cinque italiani, tre francesi, due belgi, uno spagnolo e un ivoriano. Tra loro si contano sette periti agrari, tre formatori, un’infermiera e un’animatrice. Una équipe preposta ad accompagnare ogni anno il percorso di formazione umana, agricola e religiosa di una quarantina di giovani, tutti segnalati dal vescovo o dal clero, con la precedenza riservata ai catechisti.

Il programma prevedeva mezza giornata di formazione (alfabetizzazione, educazione sanitaria, teoria agricola, animazione femminile, animazione rurale e formazione religiosa) e l’altra metà di lavoro.

La partecipazione era completamente gratuita e durava nove mesi. Ognuno degli iscritti aveva inoltre a disposizione due ettari da coltivare autonomamente, per maturare esperienze e per ricavare una parte del proprio sostentamento.

Si trattava di una moderna fattoria, dove si allevavano buoi, pecore, capre, maiali e galline. Il Genio Militare, sotto la supervisione del dottor Aliprandi, che era uno dei volontari insieme alla consorte, aveva creato un vasto lago artificiale per facilitare l’irrigazione delle aree destinate alla coltivazione intensiva. A valle erano stati ricavati quaranta stagni per incentivare la piscicoltura. Il latte delle mucche e delle capre era lavorato nel caseificio della fattoria, mettendo a disposizione della popolazione formaggi di ottima qualità. L’allevamento dei buoi si completava con l’addestramento al trasporto e all’impiego nell’aratura. Al termine del periodo di formazione i catechisti rientravano al loro villaggio con un bue e un aratro da utilizzare a vantaggio proprio e della loro comunità.

 

In foto: fratel Fabio Mussi (a sinistra) nella fattoria di Brobo (1985)

Partire dall'uomo

Per fratel Mussi era fondamentale cambiare «la mentalità e la visione della vita, del lavoro, del modo di investire il tempo e le risorse». Per questo bisognava «imparare a rischiare, facendo prestiti per acquistare buoi, macchinari e sementi».

Una simile strategia, nel rispetto della cultura e delle tradizioni ivoriane, si proponeva di  frenare l’esodo verso le grandi città, gettando nel contempo le basi per uno sviluppo sostenibile, capace di garantire un dignitoso tenore di vita: «Non vogliamo limitarci – diceva fratel Mussi – all’agricoltura senza pensare alla salute e alla scuola. Si vorrebbe sempre partire dall’uomo concreto, che ha molti problemi da affrontare. Per questo cerchiamo di essere attenti alla singola persona oltre che alla massa».

Una sfida che per decenni ha rappresentato il punto di riferimento dell’evangelizzazione e della promozione umana nella diocesi di Bouaké e in tutta la Costa d’Avorio.

 

di Ezio Meroni
ricercatore presso l’Ufficio Beni Culturali del Pime

In occasione dei 50 anni di presenza del Pime in Costa d’Avorio, abbiamo chiesto a Ezio Meroni, ricercatore presso l’Ufficio Beni Culturali, di raccontare la storia dell’Istituto in questo Paese partendo dalle fonti storiche dell’Archivio generale Pime (Fondo Costa d’Avorio), Mondo e Missione, Quaderni di Inforpime e dalla Biblioteca Pime.