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19/04/2023
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Secondo le Scritture
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teologia
Una santa ospitalità | Secondo le Scritture
L'alleanza di Dio con l'uomo passa per una cura costante, di cui Gesù ci fornisce la chiave: essere ospitali. Perché la cura è prima di tutto accogliere l'altro
Da quale brano biblico partire per parlare di cura? La Storia della Salvezza iniziata nella Bibbia ebraica e compiuta nei Vangeli è tutta una storia di cura! Ripetutamente scorgiamo i tratti di un Dio che non smette mai di prendersi cura delle sue creature, con le quali ha stretto un’alleanza tutta speciale suggellata, per i cristiani, nel suo Figlio fatto uomo. Ecco perché ho pensato di riflettere sugli inizi e sulla fine – o sul fine – di questo meraviglioso testo sacro che parla di un Dio padre che si prende cura, in primis, del suo popolo eletto e poi dell’intera umanità.
Tutti ricordiamo l’inizio del libro della Genesi/Bereshit con il racconto eziologico della creazione del mondo in sette giorni (lettura non alternativa, ma parallela a quella scientifica). Vorrei arrivare al momento che appena precede quello in cui il primo uomo e la prima donna vengono espulsi da Eden:
❮❮ Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì. (Gen 3,21) ❯❯
Abbiamo appena letto del primo peccato, quello “originale”, commesso dal genere umano e del giudizio emesso dal Signore Dio: un giudizio severo che provoca dolore e anche un certo fastidio alle nostre orecchie e al nostro cuore. Questo succede perché siamo, consapevolmente o meno, solidali con l’uomo e la donna del racconto genesiaco. Se ci fermiamo ad analizzare i dettagli provando ad assumere il punto di vista del Creatore, scopriamo che quest’ultimo non ha l’intenzione di punire per il gusto di farlo o per ristabilire chissà quale ordine irrimediabilmente alterato, ma ha l’unico fine di insegnare all’uomo a diventare responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Una giustizia pedagogica
Quella che Dio applica è la giustizia, poiché egli è la giustizia e ha fatto dell’uomo l’interprete della giustizia: nella Bibbia ci troviamo spesso davanti a contenziosi giudiziari dove Dio si contrappone a un essere umano che si fa portavoce di qualcun altro (Abramo mediatore per Sodoma o Mosè in rappresentanza di Israele) o che addirittura ha l’ardore di citare in giudizio il creatore, come nel caso esemplare di Giobbe. Qualunque sia il ruolo dell’umano nei vari episodi, ciò che sorprende sempre è il comportamento di Dio, che ha come fine l’applicazione di una giustizia davvero equa, in grado di ristabilire l’unico ordine che ha davvero senso di esistere: l’alleanza tra il Dio creatore e le sue creature. Ciò che Dio non tralascia mai, per soddisfare davvero questa esigenza primaria, è la cura riservata all’uomo: l’Onnipotente resta fedele al suo progetto iniziale amministrando la giustizia in modo equo e, oserei dire, pedagogico.
Ed eccoci al versetto citato prima: perché perdere tempo a fare delle vesti a due che hanno deliberatamente deciso di fare di testa loro pensando di poter essere, se non uguali in tutto, almeno indipendenti e autonomi dal loro creatore? Questo è il concetto di cura che ho in mente; è facile prendersi cura di chi si ama, di coloro che riconoscono i gesti di interessamento e solerzia che manifestiamo o di quelli che vorremmo mostrassero attenzione e riconoscenza nei nostri confronti. La sfida consiste nel prendersi cura di coloro che non danno nulla in cambio, di coloro che non chiedono di essere curati o che, similmente alla storia dei primi capitoli della Genesi, hanno addirittura trasgredito alla parola data, alle attenzioni precedenti, ai doni elargiti con generosità e alle leggi che regolano la società civile e la buona convivenza.
Se non possiamo vivere in un mondo che applica la legge tout-court, senza farsi delle domande sul caso specifico o su come agire anche nell’interesse del colpevole, altrettanto illusoria parrebbe l’idea di un’anarchia caramellata che, in nome di una libertà senza limiti, non persegue alcuna trasgressione concentrandosi solamente sull’umanità ferita, che spesso si assurge a giustificazione per qualsiasi errore. Come tenere insieme queste due cose? Come riuscire ad essere reali interpreti di quella legge equilibrata e davvero retta che Dio mostra di applicare lungo tutta la Storia della Salvezza? Quale stile possiamo assumere per essere buoni alleati di Dio su questa terra e nel nostro tempo? Lo stile di Gesù.
❮❮ prendersi cura non è solamente rispondere al bisogno dell’altro quando questo si manifesta ma è fare spazio in me per poter accogliere l’altro. ❯❯
Lo stile di Gesù: la santità ospitale
Per parlare dello stile di Gesù mi rifaccio alla proposta del teologo gesuita Christoph Theobald che lo identifica con il concetto di “santità ospitale”. Secondo il teologo francese ciò che caratterizza Gesù, non è tanto una dottrina o un pensiero – difatti non ha lasciato nulla di scritto – ma è un certo tipo di relazione che instaura con coloro che incontra e l’effetto che tali incontri hanno su queste persone e su di lui. Theobald sottolinea la sorprendente distanza che Gesù di Nazaret sembra avere rispetto alla propria identità: raramente parla di sé in prima persona, rimanda sempre a categorie altre (il Figlio dell’uomo, il padrone di casa, ecc.); questo atteggiamento esprime la sua capacità di imparare da chiunque incontri sul suo cammino, creando così uno spazio ospitale per tutti gli uomini e le donne che incontra nella sua breve vita pubblica.
In foto: Christoph Theobald
Questo spazio risulta incomprensibile al di fuori di una presenza concreta e consapevole del tempo presente, che dedica attenzione, plasma e si lascia plasmare dagli sguardi incrociati e dalle mani sfiorate. Ed è in questa ospitalità – il versante antropologico della santità, quindi potenzialmente imitabile anche da parte nostra – che deve avvenire un’inversione “poiché colui che invita diventa, nell’esperienza di ospitalità, ospite dell’invitato, legando l’uno all’altro in una relazione intenzionalmente simmetrica” (Theobald).
Tale inversione non è scontata né semplice, poiché risulta continuamente minacciata dalla violenza umana. Quest’ultima tenta di ricondurre a sé l’a/Altro in una spirale di auto-soddisfazione, utilitarismo e possesso. Appare chiara in Theobald l’influenza del pensiero di Jacques Derrida: il soggetto è primariamente un essere aperto all’ospitalità. Non c’è prima il soggetto e poi l’apertura all’a/Altro, ma il soggetto si scopre tale proprio nell’articolazione dell’ospitalità, poiché colui che si crede “proprietario di luoghi” è in verità un ospite a sua volta: senza l’incontro con l’a/Altro egli non può definirsi. Solamente riconoscendo questa dinamica l’essere umano può prepararsi ad accogliere colui che gli viene incontro, mettendosi al suo servizio, creando spazi e fratture affinché questo a/Altro possa germogliare nella sua unicità, nelle sue esigenze personali e nella sua radicale novità, di cui fanno parte anche le difficoltà, le trasgressioni e le esigenze etiche e morali.
Uno spazio per ospitare
In questa dinamica forse è possibile scorgere il concetto di cura: prendersi cura non è solamente rispondere al bisogno dell’altro quando questo si manifesta ma è, più radicalmente, provare a fare spazio in me per poter accogliere l’a/Altro abbassandomi, scendendo dal piedistallo della mia presunta superiorità, spendendomi davvero. E lasciandomi aperto a un continuo rinnovamento che, in misura più o meno intensa o interessante, certamente l’a/Altro mi donerà.
Se, nell’incontro con il prossimo, riesco ad essere pronto ad offrire il mio aiuto, ma al contempo ad esercitare l’umiltà, allora potrò sperare di avvicinarmi alla santità ospitale di Gesù. Che, in tutto il racconto di Marco, non ha mai la pretesa di parlare della sua identità, ma solo alla fine si lascia narrare e riconoscere da un anonimo soldato romano che “avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»”.
Di Valentina Venturini
teologa ed educatrice presso la sede di Busto Arsizio dell’Ufficio Educazione Mondialità