La fragilità e la cura

La Terra è in pericolo e per salvarla serve un cambio di mentalità, soprattutto nei settori più impermeabili al cambiamento. Ci serve la funzione femminile della mente per imparare sostituire alla forza il paradigma della cura

Non abbiamo un piano B

La situazione che il genere umano nel suo complesso sta attraversando nei tempi attuali pone urgente la questione della sopravvivenza della specie sulla pianeta terra: le nostre condizioni di vita sono state garantite dalla tenuta di ecosistemi bilanciati, di energia elargita senza spesa, del servizio gratuito di sostegno e di manutenzione che la biosfera ha attivato nel corso dei millenni. L’incessante e silenzioso lavoro di miliardi di organismi ha permesso la permanenza nel tempo di parametri necessari per la continuazione delle specie viventi, soprattutto quella umana.

Come sappiamo, oggi, il pianeta è in affanno perché la grande accelerazione di consumi, interpretata come crescita economica, ha pregiudicato e sta pregiudicando questi equilibri, in modo purtroppo difficilmente reversibile. Il mondo è fragile, prezioso perché vulnerabile ed esposto in modo inerme al trattamento che vorremo riservargli.

La collocazione che il genere umano ha deciso di darsi all’interno di questo sistema è stata quella di porsi fuori, come essere superiore, e di dominare il resto degli ecosistemi che chiamiamo “il creato”. Questa posizione di supremazia ha legittimato sfruttamento e prelievo indiscriminato delle risorse disponibili, ingaggiando con la Natura una lotta furiosa in nome del progresso tecnologico e dello sviluppo. La logica del profitto è l’evidente evoluzione dell’assunto di base che colloca la specie umana al disopra del sistema. Non solo: all’antropocentrismo si sovrappone l’androcentrismo, che aggrava il problema introducendo lo squilibrio di genere all’interno della stessa specie. Inoltre questa posizione di preminenza riguarda una minoranza, a discapito della maggior parte degli abitanti del pianeta, che pur appartenendo al genere umano, sono totalmente esclusi dalla fruizione di beni primari essenziali: acqua potabile, cibo, istruzione, sicurezza. Una piramide egoica selettiva e feroce che alimenta il ciclo delle diseguaglianze sociali.

Siamo nell’Antropocene, il tempo in cui l’impronta antropica sul pianeta è talmente incisiva e potente da assumere l’aspetto di una forza naturale.

È come se, apprendisti stregoni, avessimo violato confini e limiti per giungere, in un delirio crescente di onnipotenza, nella cosiddetta “stanza dei bottoni”. Aver manomesso il termostato planetario può somigliare all’esito di una rissosa riunione condominiale relativa all’orario di accensione del riscaldamento o alla ripartizione delle spese. Purtroppo la posta in gioco, in questo caso, ha a che fare con la vita degli attuali abitanti della terra e delle generazioni future, cui verrebbe preclusa.

La scienza, nonostante l’attacco dei detrattori che contrappongono ipotesi complottiste alle conclusioni degli studi, conferma che il livello di consumo e di impiego delle risorse raggiunge anno dopo anno livelli sempre più allarmanti, compromettendo la capacità di resilienza e di auto guarigione che il sistema Terra sarebbe in grado di attivare per compensare gli squilibri. Abbiamo perso, con lo sterminio delle etnie autoctone e la decimazione dei nativi, anche la loro visione del mondo fondata sul principio della sacralità della Terra, di Gaia, di Pacha Mama.

Oggi siamo arrivati, dopo mille torsioni, al punto di riconsiderare saggi e necessari quegli approcci, alla base di un cambio di paradigma ormai indispensabile per invertire la rotta. Non abbiamo altro pianeta che questo e dovremo impegnarci a salvarlo.

Dare spazio a Metis, la grande mente

Il mutamento di paradigma impone scelte radicali anche e soprattutto dal punto di vista economico: non è possibile immaginare la riforma del pensiero auspicata da Edgar Morin se non si intraprendono strade di attuazione e di ripensamento in ambito economico e finanziario, i settori più rigidi e meno sensibili alla flessibilità, eppure gli ambiti in cui il cambio di passo sarebbe più urgente.

Occorre, ricorrendo alla mitologia, non usare la spada di Teseo che recide, perché è ispirata ad una mens che classifica, gerarchizza, parcellizza, divide. Una razionalità che si muove per contrasti e manicheismi, per antinomie oppositive: materia/anima, emozioni/ragione, bianco/nero  evoluto/sottosviluppato. Occorre un pensiero delle connessioni, che riconcili e non inferiorizzi le divergenze.

Occorre, per i nostri tempi di liquefazione ed erosione, la grande mente, Metis, la sposa di Zeus che il padre degli dei e degli uomini preferì ingoiare e restituire poi sottoforma di parto cerebrale come Atena, la dea della sapienza armata, costringendo il femminile ad una sottomissione ora deleteria per la nostra specie. In questo momento abbiamo bisogno della funzione femminile del pensiero umano, quella che non si limita a sfruttare la Terra, ma la sa alimentare, che ha la capacità di ragionare usando la rete che è orizzontale e circolare, non retta e verticale. Usando la metafora della tessitura, si considera necessaria una visione di insieme che abbia cura della tenuta del sistema partendo dalla responsabilità come unica strategia di risanamento e di guarigione.

Pensare la Terra come un condominio e prendere sul serio la comunità di destino impone svolte necessarie e audaci come quelle proposte da Kate Raworth nel suo testo L’economia della ciambella che rivoluziona i dispositivi metaforici che vivono nel nostro immaginario. La Raworth propone un modello circolare fondato sullo scambio, sulla reciprocità, sulla interiorizzazione del limite come parapetto sicuro: in un’ottica circolare si rende necessaria una redistribuzione delle risorse che non mortifica l’economia, ma la ripensa, la orienta al bene comune, attraverso l’immagine di una casa sicura per tutti.

La sua intuizione modifica la concezione di sicurezza non vista come immunizzazione e separazione, perché è fondata sulla condivisione e sul rispetto dei limiti. In una casa ci sono il pavimento e il tetto, lo spazio della vivibilità: alla base, la limitazione e la riduzione delle diseguaglianze sociali, in cima la salvaguardia degli ecosistemi e il contenimento dei consumi e dello sfruttamento.

 

In foto: Kate Raworth durante una conferenza ad Oxford

Essere il cuore pensante della baracca

Per ottenere il mutamento che tanto auspichiamo, abbiamo bisogno di esempi divergenti, di suggerimenti alternativi, di pensieri non allineati; per farlo, può risultare utile la consultazione di alcuni testi illuminati, prodotti prevalentemente da pensatrici e filosofe molto diverse tra loro.

La filosofa Elena Pulcini, autrice del testo La cura del mondo (2009) nel sottotitolo unisce due termini chiave: paura e  responsabilità. Il terrore come stile di vita dell’uomo globale si identifica come “paura di” attacchi, nemici, perdita di controllo, caos e spinge ad isolarsi, a recludersi, tagliando fuori e tagliandosi fuori per proteggersi privatamente. L’autrice suggerisce una svolta necessaria: trasformare il terrore in “paura per” l’altro, l’ecosistema la salvaguardia, in sollecitudine, premura, introducendo il paradigma della cura come attenzione alla vulnerabilità. Tra l’individualismo monadico e il comunitarismo soffocante la terza via è la presa in carico della preziosità fragile della vita in un’ottica di interdipendenza e di riduzione della paura attraverso la riattivazione di emozioni e di empatia.

La filosofa Adriana Cavarero nel testo illuminante Inclinazioni. La critica della rettitudine (2013) indica quali passaggi sono importanti per impostare una riforma del pensiero: elogiando le inclinazioni contro la rettitudine, valorizza la postura curva, considerata, invece, deviata e storta. Decostruisce radicalmente l’immagine di umanità rappresentata dall’uomo vitruviano: maschio, giovane, retto, verticale, autosufficiente, per richiamare altre icone dimenticate di Humanitas pericolosamente rimosse: il vecchio, l’infante, la donna.

Nel suo testo denso oppone alla postura fallocentrica, meridiana, quella inclinata, che sa volgere lo sguardo intorno, che si prende cura del contesto, di chi è piccolo, di chi si ama; stare curvi sull’oggetto di amore è la postura giusta e la filosofa sceglie come rappresentazione iconografica la Madonna di Leonardo con sant’Anna. Maria, seduta, senza perdere il suo baricentro si china tendendo le braccia al Bambino che sta muovendo i primi passi. Le loro braccia disegnano non un cerchio concentrico ed autoreferenziale, ma una ellissi a due fuochi, in cui entrambi hanno pari dignità ed agiscono in una prospettiva di “reciprocità asimmetrica” come afferma Gabriella Caramore.

 

In foto: Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino, 1510-1513, dettaglio 

È di questo che abbiamo disperatamente bisogno: modelli alternativi, bussole, pensieri capaci di rammendare, di ricucire gli strappi delle lacerazioni, di orlare i bordi di ferite che non si rimarginano, ma possono diventare occhielli per interpretare la vita e le vite. Il mondo può guarire se cura le dicotomie e le su opposizioni feroci, se riconcilia emozioni e razionalità. È la strada di Etty Hillesum: essere il cuore pensante della baracca.

 

di Antonella Fucecchi
docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale

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