Non toccate la fantasia, lasciatela intatta

Le fiabe possono sembrare antiquate, ma hanno un potere ineguagliabile di aiutare i bambini nella costruzione della propria identità. E la fantasia resta uno strumento fondamentale per crescere uomini non solo creativi, ma anche liberi

Nel precedente articolo Rinasciamo dalle storie abbiamo parlato del progetto editoriale Favole dei quattro continenti. Riprendiamo il passo da qui.

Marco Dotti, direttore editoriale dell’Editrice missionaria italiana (Emi), ha affermato che la scelta di accompagnare l’uscita del primo volume, Asia, ad un convegno, raccoglie la sfida all’innovazione. La pubblicazione intesa non solo come presentazione del prodotto editoriale, bensì anche come mezzo per sperimentare una dinamica crossmediale in un’ottica di apertura al confronto e al dialogo tra autori, casa editrice e comunità. Attraverso la pubblicazione delle favole, dunque, si cerca di far passare un’idea di editoria come sapere artigianale.

Sicuramente è questo un approccio che oltre all’innovazione ha a cuore la tradizione, quasi un sapere antico che si è perso ma che ci pare giusto dover recuperare oggi.

Per esprimere il concetto di questa nuova editoria possiamo richiamare alla mente l’immagine dell’arca di Noè: uno spazio di salvezza in cui convivono sinergie caotiche che si mettono in dialogo in un viaggio senza confini. È un’editoria che si accovaccia, che entra nel mondo del bambino, si siede e dialoga con lui.

Nelle storie, sin dai tempi più antichi, l’uomo ha trovato lo strumento per non sentirsi solo. Il racconto allarga lo sguardo, si nutre delle esperienze di chi lo fruisce e ciò che si trasmette è sempre più di quello che è stato raccontato. Il valore delle storie sta nella loro condivisione, nel saper parlare alla sfera dell’essere oltre la sua concretezza. Chi racconta ai bambini non dimentica di avere cura dell’intangibile, del sacro, perché solo attraverso questo immaginario apparentemente inconsistente si creano scie di pensiero.

Non bisogna considerare come superate, retrograde, vecchie le fiabe pervase di fantasia: sono la realtà che più riesce ad avvicinarsi alla complessità cognitiva ed emotiva dell’infanzia, del suo modo di sentire e ragionare. La forma del racconto custodisce antiche memorie, così che il rapporto dell’essere umano col suo intorno si fa più profondo perché non spiegato, quanto piuttosto lasciato libero di essere.

Spostiamoci per un attimo dall’ambito delle storie e includiamo una riflessione interessante, apparentemente non inerente al discorso che si sta conducendo, sulla funzione dell’infanzia e del gioco. Il giornalista inglese Alex Blasdel, in un articolo pubblicato sul The Guardian (Internazionale n. 1491), riflette sui giochi per bambini ormai «strumenti per accelerare l’apprendimento e offrire un vantaggio competitivo». Secondo Blasdel: «negli ultimi due secoli educatori, psicologi, aziende produttrici di giocattoli e genitori si sono comportati, più o meno esplicitamente, come se lo scopo del gioco fosse preparare i bambini all’età adulta. Il riferimento dominante in questo senso era la scuola , con il suo “leggere, scrivere e far di conto”. Più studio si faceva passare per gioco, meglio era. Poi, a partire dalla seconda metà del novecento, con la diffusione delle neuroscienze, le aziende cominciarono a vendere giocattoli (e i consumatori a comprarli) con l’obiettivo di formare menti migliori e, di conseguenza, adulti più competitivi e di successo. Insomma, creare un homo sapiens un po’ più sapiens».

Gli studi scientifici hanno coltivato e radicato l’estrema importanza delle prime esperienze nel plasmare il comportamento e le capacità di una persona. Ora questa riflessione sembra vacillare, i bambini sembrano più fragili, inclini ad un pericoloso perfezionismo e ad un costante senso di inadeguatezza. Cooperano dunque a questo stato d’animo i giochi didattici, portatori sani di aspirazioni sociali.

La domanda è questa: cosa portano via, questi giocattoli, ai bambini?

La fantasia, ossia il fiore che sboccia nella noia e lascia un segno, una traccia del nostro essere unici nella relazione con il mondo.

 

In foto: Gianni Rodari

Gianni Rodari, nella sua Grammatica della fantasia, riflette sulla necessità di un’educazione alla creatività e alla fantasia perché il «sistema disumano in cui viviamo pone tra i suoi principali obiettivi la repressione delle potenzialità creative». «Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) ha bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà –  vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla, occorrono uomini creativi che sappiano usare la loro immaginazione» aggiunge Rodari.

Le storie, le fiabe, possono essere allenamento a questa creatività. Non importa che il racconto sia lontano dalla realtà storica e sociale del bambino. La fiaba può essere gioco, ossia verità dell’agire dell’io bambino e del suo voler impegnarsi, conoscersi, misurarsi.

Concludiamo dunque tenendoci ancora un po’ vicino alle riflessioni di Rodari e della sua Grammatica:

❮❮ Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere. ❯❯

Proviamo a sostituire ‘parola’ con ‘storia’, e si racchiude tutto qui il senso personale e sociale della trasmissione delle fiabe. Non toccate la fantasia, lasciatela intatta.

 

Di Sofia Sangalli

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