Un pranzo di Natale | Lettere dalla Storia
Albania, 24 dicembre 1940. In questo brano tratto dal suo diario padre Lino Simonelli, missionario del Pime e cappellano militare, si fa solidale portavoce della nostalgia dei soldati al fronte
Albania, vigilia di Natale 1940. È tempo di guerra. E la guerra, ovunque sia, lo vediamo anche oggi, porta sempre con sé un insensato fardello di sofferenza; non solo per chi la subisce, ma spesso anche per chi è costretto a farla.
Padre Lino Simonelli, classe 1913, diventa missionario del Pime nel 1938, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. Non sono tempi per partire in missione: il giovane padre si ritrova, suo malgrado, a indossare la divisa militare e a partire sì, ma per fare il cappellano sul fronte greco-albanese, tra i feriti di un precario ospedale da campo.
In questo brano tratto dal suo brioso diario (Carlino Sputaspilli, ed. EMI, Bologna, 1995) si fa solidale portavoce della nostalgia dei soldati, costretti al fronte nei giorni in cui tradizionalmente le famiglie si riuniscono per celebrare le festività natalizie.
E in quel campo di sofferenza, anche un pranzo di Natale a base di croste di formaggio, se condiviso, aiuta, sia pure per poco tempo, a rischiarare gli animi.
C’è un detto militare: «Quando arriva un ordine, aspetta il contrordine». Purtroppo, il detto si avvera spesso e bisogna aver pazienza. Credete che siamo ancora accampati vicino alla palude? Neanche per sogno. Dopo nemmeno una settimana, il contrordine ci ha fatto retrocedere di un paio di chilometri. (Ve lo immaginate il lavoro di smontare e rimontare quel po’ po’ di roba?).
Ora siamo accampati nella gola di due montagne, col monte Lungara alle spalle. È la gola di un mostro che succhia e rivomita ogni cosa. Tutti i giorni, sull’imbrunire, dal Lungara si precipita su di noi l’uragano sconquassatore e dura tutta la notte, fino all’alba.
In foto: disegno di padre Lino Simonelli
Che vento, mio Dio! Lo preannunzia un boato sordo, sconcertante, che sembra scaturire dalle viscere della terra. Le tende si gonfiano come grossi aerostati e, dopo una resistenza disperata, volano via. Non serve a nulla ancorarle con cavi d’acciaio: i picchetti sgusciano fuori dalla terra, come denti marci.
Durante i pasti, nella tenda adibita a mensa degli ufficiali, il capitano sta sulle spine. Ed è comprensibile. I pali che formano l’armatura della tenda constano di varie parti, innestate l’una dentro l’altra e giocano su e giù, come pistoni: possono sfilarsi da un momento all’altro.
Specialmente il grande palo centrale è pericoloso. Il capitano scala, a turno, dei soldati che lo tengono fermo, ma non c’è verso.
– Madonna mia! – brontola, ogni tanto, alzandosi da tavola, col tovagliolo al collo. – Se m’arriva in testa quell’arnese, son bell’e spacciato: io, sono padre di sei figli!
Ieri, Vigilia di Natale, i soldati del reparto e i feriti s’aspettavano la Messa solenne di mezzanotte. La nostalgia si leggeva sul viso di tutti. Specialmente i meridionali volevano cantare «Tu scendi dalle stelle». Invece, è andato a monte tutto.
Verso le dieci di notte, il vento è diventato un demonio furioso e ha fatto piazza pulita. Persino le baracche di legno son volate via come fuscelli.
La mia piccola tenda (quattro teli mal ridotti, pieni di buchi) è l’unica rimasta in piedi. Parte del merito va al pero selvatico al quale è ancorata, ma la maggiore spetta al mio attendente. Compare Carluccio l’ha montata così male, così sbilenca che, all’urto del vento, si chiude e si apre come una fisarmonica. I buchi servono da valvole regolatrici, per cui, al momento buono, si acquatta e si rialza, sfuggendo alle grinfie di Satana.
Ora vi lascio immaginare le urla dei feriti, travolti insieme alle tende e sballottati per ogni dove. Neanche il vento riusciva ad attutirle. Gatton gattoni, sono uscito dalla mia tenda, armato di lume a petrolio, per correre in aiuto, ma il lume s’è spento subito. Era buio pesto: non sapevo dove stavo andando.
Ogni volta che alzavo il piede, per dare un passo, il vento mi mandava a gambe all’aria. Dove si era mai visto un vento simile? Persino raffiche di sabbia mi sferzavano la faccia.
Il lavoro di pescare ferito per ferito, al buio, in quel groviglio di teli e di brande, era oltremodo difficile. Gli altri tre ospedali eseguivano la stessa operazione.
Finalmente i feriti sono stati caricati, a varie riprese, sugli automezzi che avevamo a disposizione e spediti all’ospedale centrale di Valona.
In foto: padre Lino Simonelli in divisa militare
Il giorno è spuntato grigio e piovoso su quella rovina. Non c’era un buco dove ripararci, all’infuori della mia tenda, così inutile che non serviva a nulla. Uno squallore. E non era tutto. La cucina era stata sradicata anch’essa e il deposito dei viveri era rimasto sepolto sotto una frana di tavole. Conseguenza: addio, pastasciutta.
Oggi il soldato Rizzieri, addetto alle pentole, non avrebbe lanciato il conosciuto richiamo a cui soleva rispondere un gioioso tintinnar di gamelle: — Cornuti, fetenti, pidocchiosi, lo volete il rancio, sì o no?
Era un modo suo di sostituire il trombettiere, mancante nel reparto.
Verso le undici il tenente d’amministrazione è sbucato fuori dai teli della mensa degli ufficiali ed è corso verso di noi, raggiante, come se avesse vinto la guerra: aveva racimolato alcune croste di parmigiano. Io e i medici abbiamo fatto capponcello, lì sotto la pioggia, e ognuno ha rosicchiato la sua crosta. Era il pranzo del nostro primo Natale di guerra.
Il Diario di Carlino Sputaspilli, alias padre Lino Simonelli, è uno scritto piacevole, a tratti commovente, spesso dissacrante. Perché padre Lino, «contadino, soldato, missionario», si vedeva così, e così si raccontava: dall’infanzia trascorsa a Tresana (MS), all’esperienza della guerra sul fronte greco, alla Missione in Brasile dove, salvo qualche breve interruzione, trascorre oltre cinquant’anni della sua vita. Le pagine del suo diario, da fedeli complici delle marachelle infantili, crescono e maturano fino a diventare confidenti della sua vocazione, nata quasi per gioco, dei giorni in seminario, della commozione della Prima Messa. Tutto sempre narrato in uno stile che rende difficile al lettore soffocare una risata, nonostante la serietà di contesti e situazioni.
A cura di Isabella Mastroleo
Chi volesse leggere il libro può richiederlo alla Biblioteca del Pime, scrivendo a bilioteca@pimemilano.com