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30/11/2022
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In una stazione di Dakha padre Fabrizio Calegari si mette in ascolto delle storie dei bambini di strada che la abitano. E riscopre che le parole a volte sono inutili, mentre mancano le azioni concrete. Chi decide di sprecare la sua vita per questi bambini?
❮❮ Ascolta come mi batte forte il tuo cuore. (Wisława Szymborska)
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L’amico Nur, fotografo di Dhaka, mi accompagna in stazione dopo una mattinata passata insieme a scattare foto. Lui conosce posti che io non scoprirei mai e sa benissimo come muoversi, anche in situazioni non facili. In stazione scopriamo che il treno che deve riportarmi a Dinajpur è in ritardo di oltre tre ore. Nur decide di restare un po’ per farmi compagnia, troviamo un posto dove sederci e parlare. Due bambini mi si avvicinano per chiedere l’elemosina. La stazione è uno dei rifugi preferiti dei bambini di strada, che qui trovano riparo, forse casa.
Sto per mettere mano alla tasca ma Nur mi ferma. Prima vuole fare quattro chiacchiere insieme. Presto si aggiungono altri, curiosi di questo straniero che parla bengalese. Vado a comprare pane e banane, e li distribuisco al posto di parole inutili. Chiediamo i loro nomi e da dove vengono, dove vivono: Nur conosce già un paio di loro e le loro situazioni. Ha scattato foto anche nei bordelli di Dhaka e sa toccare i tasti giusti per conquistare la confidenza dei bambini. Raccontano le loro vite spezzate e intrise di dolori, botte, abbandoni, traumi che non hanno una soluzione e non prevedono un lieto fine.
C’è anche questa parte di mondo che non ci sfiora mai, che sembra una realtà distopica tanto è assurdamente diversa e terribile. Ma c’è.
Mi viene l’idea di registrare perché mi rendo subito conto che ciò che stanno dicendo è qualcosa che non posso tenere per me.
Mentre ascolto avverto rinnovarsi la frustrazione e la rabbia, così tante volte sperimentata qui, di fronte alla sproporzione tra la povertà che incontro e le mie forze. Tra le ingiustizie intollerabili che vedo e la mia impotenza in risposta.
La verità è che l’umanità ferita ci mette sempre in difficoltà. Ci spaventa, vorremmo evitarne lo sguardo, girare canale. I guanti e le mascherine li avevamo addosso ben prima del covid, con le nostre analisi fatte da lontano, gli sguardi asettici, zapping e scrolling per tenere la testa risucchiata come in un lavandino sturato, la paura di restare contagiati dai legami.
Si diventa disumani anche così, senza nemmeno accorgersene, bastano piccole dosi di indifferenza ogni giorno e ci ritroviamo vaccinati alla compassione. Non rendendoci conto che, evitando il fastidio di ascoltare le ferite degli altri, non entriamo in contatto nemmeno con le nostre.
Ci atrofizziamo per mancanza di battiti.
Per questi bambini non c’è nulla che possa fare ora, lo so fin troppo bene. E so anche che starò male per questo. Posso però ascoltare i loro nomi, fare un po’ di spazio e accoglierli, dare loro importanza anche solo per pochi minuti. Sono Gesù, non mi serve sapere nient’altro.
“Come ti chiami?”, chiede Nur.
Ecco le loro storie.
Mi chiamo Ruma.
Mia madre è scappata via con me quando mio padre, dopo la mia nascita, ha voluto storpiarmi per potermi usare per l’accattonaggio. Non so cosa faccia effettivamente mia madre. Dorme tutto il giorno e lavora di notte quando dormo. Viviamo per strada. I nostri vicini e la polizia mi chiamano “figlia di puttana”. La mamma mi ha detto di non rispondere perché le persone cattive parlano sempre con parole cattive. Sono una venditrice di fiori, non chiedo l’elemosina.
Ma le persone non hanno tempo per guardare i fiori. A volte dal finestrino delle grandi macchine vedo dei bei bambini con i loro genitori. Un giorno una mamma ricca comprò tutti i miei fiori per la sua bambina, ma quando la bambina volle darmi dei soldi, la madre le disse di non toccarmi perché potevo avere una malattia. La bambina allora lanciò i soldi in aria e io li presi.
Quel giorno mi ha reso la miglior venditrice di fiori tra tutti quanti.
Mi chiamo Syed.
Io e la mia famiglia viviamo nella stanza più economica della nostra strada. Le nostre case sono fatte di teli di plastica, stuoie di bambù e carta. Mio padre è un malato di tubercolosi e mia madre è una domestica. Lavoro come facchino e a volte vendo bottiglie d’acqua per strada.
È diventato molto difficile vivere nella nostra famiglia con solo i guadagni di mia madre. Quasi ogni giorno la vedo correre dietro il camion del governo che vende cibo a un prezzo più basso. È impossibile per noi mangiare tre pasti al giorno. Tante volte non abbiamo cibo da mangiare e abbiamo paura di quello che ci accadrà. La nostra vita è così dura che mio padre potrebbe morire da un giorno all’altro a causa della mancanza di cure.
Sai che mio padre è il mio eroe? Tre anni fa quando mio padre riuscì a procurarci una vecchia TV fu il giorno più felice della mia vita. Adoro guardare i film sulla nostra TV. Mi piace sempre l’ultima parte perché alla fine del film, qualunque cosa accada, l’eroe ci riesce! Voglio essere un eroe per i miei genitori e voglio assicurarmi che tutti i nostri problemi scompaiano.
Mi chiamo Rafia.
Raccolgo rifiuti nella spazzatura. Non è facile trovare roba utilizzabile dalla spazzatura. Devo lavorare con molta attenzione. A volte dopo un’intera giornata trovavo una cosa da vendere nel negozio di riciclaggio. E in una buona giornata posso trovare i biscotti. Non i biscotti soliti, ma quelli che hanno la crema. Sono i miei preferiti. Certi giorni trovo biscotti che hanno un sapore molto aspro, ma al mio cane piace mangiarli, quindi li do a lui. Una volta, in una brutta giornata, mi sono tagliata i piedi.
Penso che la gente non sappia che i bambini lavorano nella spazzatura a piedi nudi. Buttano via i vetri rotti che spesso ci feriscono i piedi. A volte sanguinano molto e fa molto male. Io e il mio cane abbiamo avuto molte cicatrici sulle gambe. Ecco perché adesso porto dei vestiti con me. Se i piedi sanguinano li lego e continuo a lavorare.
Mi chiamo Joy.
Se mia madre fosse viva, non avrebbe mai permesso alle persone di farmi del male! Non mi avrebbe mai lasciato dormire sul pavimento della stazione! Ma non ho più mia madre.
È morta ammalata di tumore. Dieci giorni dopo la morte di mia madre, mio padre mi portò una nuova madre. Ma non le sono mai piaciuto! Mi picchiava senza motivo! Dopo l’arrivo della mia nuova madre, mio padre è cambiato ed è come una persona sconosciuta! Non crederebbe mai che la mia nuova madre mi ferisca spesso senza motivo! Una volta mi ha versato dell’acqua bollente sui piedi, quando ho chiesto del riso caldo durante la cena! Dopo aver visto le mie gambe bruciate, mio padre non le disse nulla!
Poi una sera ho lasciato la mia casa da solo e sono venuto in questa città viaggiando sul tetto del treno! Ora lavoro come facchino. Oggi il bagaglio era troppo pesante, ho perso l’equilibrio e mi è caduto mentre lo portavo sulla testa! Non l’ho lasciato cadere apposta! Ma il proprietario ha iniziato a schiaffeggiarmi.
C’erano molte persone lì, ma nessuno è venuto a fermarlo! Nessuno gli ha detto una sola parola perché sono un ragazzo di strada e non ho più mia madre a proteggermi! A nessuno importa più se non hai tua madre! Anche a mio padre non importava! (piange)
Mi chiamo Ashik.
Ogni giorno lavoro dieci ore e quando torno a casa mia sorella mi insegna quello che ha imparato a scuola. Mia sorella Profumo mi preoccupa molto. Quando eravamo piccoli odorava come un fiore, ecco perché l’ho chiamata Profumo. Lavoro solo per mia sorella. Ha ottenuto una borsa di studio in classe quinta. Sono disposto a fare qualsiasi lavoro pur di nutrirla ed educarla. Anche mia sorella mi ama con tutto il cuore. Durante l’ultima festa dell’Eid mi ha comprato una maglietta e dei pantaloni risparmiando i soldi della merenda per un anno. La maglietta era un po’ corta e tutti ridono di me quando la indosso, ma a me piace molto perché me l’ha regalata lei.
Mi chiamo Rifah.
Di notte, quando mi sveglio per gli incubi, chiamo per sbaglio mia madre. Dopo aver urlato per un po’, capisco di non essere con lei. Mi succede spesso. Non so a chi dare la colpa. Mio padre? Mia madre?
Mio padre si è ammalato di mente due anni dopo la mia nascita. Quando mio padre non si è ripreso nemmeno dopo tante cure, mia madre ha dovuto decidere di divorziare da mio padre a causa della povertà. Quando avevo tre anni, si è risposata con un altro uomo. Voleva portarmi con sé, ma il suo nuovo marito non le ha permesso di portarmi con loro. Quindi sono dovuto stare con mia nonna.
La mia vita è molto difficile con mio padre malato e la mia vecchia nonna. È sempre difficile sapere se mangeremo qualcosa la sera. Non c’è nessuno in casa nostra che lavori per guadagnare. Mia nonna ora è vecchia. Doveva andare di porta in porta per implorare di sfamare me e mio padre. Certi giorni in cui non poteva andare a mendicare nelle case della gente dovevo raccogliere verdure o foglie selvatiche nel boschetto vicino e farle bollire per poterle mangiare. Non sopporto quando mia nonna piange per non essere in grado di fornirci il cibo.
È un lusso sognare di studiare quando non c’è cibo nello stomaco. Abbiamo una scuola vicino a casa nostra dove studiavo. Ora mia nonna non riesce più a pagare le tasse scolastiche, quindi cerco di sedermi dietro l’aula e cerco di sentire cosa dicono gli insegnanti. In questo modo ho memorizzato molte poesie. Vorrei poter andare a scuola come quegli altri studenti e diventare una persona che guadagna per la mia famiglia, da grande.
Non odio mia madre. È impossibile per me non amarla o non sentire la sua mancanza. Ma ogni volta che penso a lei il mio cuore si spezza con un dolore forte e non riesco a controllare le lacrime.
Ogni sei mesi mia madre veniva a visitare la casa di mia nonna per una settimana. Se suo marito non veniva con lei, potevo incontrarla di nascosto. Quelle notti mia madre mi abbracciava forte sul petto. Non mi diceva mai niente, ma potevo capire le sue grida silenziose per tutta la notte.
Mia madre chiedeva cibo porta a porta ogni giorno per tutte e due. Diverse volte al giorno l’ho vista tenersi la pancia stretta con le mani quando soffriva con il viso dolorante. A quei tempi non potevo aiutarla con nient’altro che tenerla stretta.
Una mattina mia madre mi chiese: “Puoi fare molta strada con me?” Ho risposto: “Sì, posso andare ovunque tu andrai!”
Quando siamo arrivati qui dopo aver camminato per 60 chilometri in quasi tre giorni alla ricerca di mio padre e del cibo, ero seduto vicino a mia madre mentre dormiva. Non capivo perché le persone passando lanciassero soldi davanti a lei! Quando una donna venne con un grosso pezzo di stoffa e coprì il corpo di mia madre, mi chiese se poteva aiutarmi a seppellire mia madre. Mi ci è voluto molto tempo per capire che mia madre mi aveva lasciata sola!
Mi manca sempre mia madre. Non ho mai pianto quando avevo fame o quando le persone mi picchiavano, ma ogni giorno piango per mia madre.
Come mi chiamo? Non lo so. Non riesco a ricordare il mio nome. Non riesco nemmeno a ricordare mia madre o mio padre. I miei genitori mi hanno abbandonato in questa stazione quando ero ancora piccolo. Nessuno conosce il mio nome. Tutti mi chiamano “pagol”, pazzo. Non so quanti anni ho. Non ricordo nemmeno mia madre! Perché dovrei anche solo provare a ricordarli? Mi hanno lasciato solo al buio in questa stazione.
Di giorno posso lavorare e sentirmi normale, ma quando diventa buio ho paura. I miei genitori non sono con me, quindi ho comprato questo amuleto per proteggermi! Lo porto sempre al collo.
Quando vedo bambini con i genitori nella stazione, continuo a seguirli per vedere che comportamento hanno i loro genitori con i loro figli. Quando vedo che li amano, allora mi sento bene. Raccolgo bottiglie di plastica. Posso venderne un kg per 18 taka e con quei soldi riesco a comprare il mio cibo. Per dormire torno qui in stazione. È la casa per tanti bambini che sono stati lasciati dai loro genitori come me!
Siamo una famiglia e questa stazione è la nostra casa. Sì, è difficile dormire la notte e quando sentiamo molto freddo per stare al caldo ci abbracciamo tutti.
Ho ascoltato, l’orecchio teso a captare ogni palpito fino quasi a trattenere il respiro, fin quasi a voler scomparire, stordito per tanto dolore e dalla vergogna dell’impotenza.
C’è una parte di me che avrebbe evitato volentieri questi incontri. Sarebbe bastato emanare un decreto legge interiore e per chiudere il mio porto avrei trovato la scusa giusta, se ne trovano di magnifiche frugando nella cesta delle giustificazioni. Eleganti, raffinate, perfino farcite di citazioni bibliche, o anche di orrende e volgari, ci vuole un attimo a passare da bambini di strada a carico residuale.
Ma così mi sarei perso, dentro questo ascolto, l’unica Presenza che salva le nostre povere umanità e le nostre anime: “Lo hai fatto a me”. Lo sento talmente Vivo qui, che allungando la mano potrei pensare di toccarlo.
I diritti dei bambini? Benissimo i convegni, i manifesti, le tavole rotonde e le giornate. Tutto giusto, tutto necessario. Guai a non farli. Solo che le parole spesso diventano alibi e sedativi, tele di ragno nelle quali restiamo volentieri intrappolati.
Chi si mette davvero in gioco sul campo? Chi decide di sprecare anni della sua vita – dell’unica vita che ha! – qui o dovunque ci sia bisogno, per loro?
Il treno è arrivato. Sono io, adesso, che mi sento disperatamente in ritardo.
di padre Fabrizio Calegari
missionario del Pime in Bangladesh