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15.09.2022
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animazione missionaria
Quanto basta per sentirsi amati
L'esperienza di una giovane in un campo di ragazzi con disabilità in Albania le ha aperto gli occhi su quanto serve spendersi per amare e sentirsi amati
“Quanto basta?!” è la domanda che mi ha accompagnato per tutto l’anno, nonché il nome del cammino del Pime rivolto ai giovani dai 18 ai 30 anni. Essendo una proposta nuova, al momento dell’iscrizione non sapevo molto: soltanto che l’invito era per tutti coloro che avevano esigenza o voglia di ripartire dopo i due difficili anni della pandemia, mettendo nello zaino solo “quanto basta” per riscoprire sé stessi, Dio e l’altro. Per questo lo stupore è stato grande di fronte all’inaspettata proposta di un’esperienza estiva in missione.
Il 30 luglio i miei cinque compagni ed io siamo partiti per l’Albania sapendo solo il nome della città in cui eravamo diretti. Il resto l’avremmo scoperto giorno per giorno. Non so dire quale sentimento prevalesse tra l’entusiasmo e l’agitazione per il fatto di vivere un’esperienza nuova con delle persone a me quasi sconosciute. Siamo semplicemente partiti, fidandoci di chi aveva scelto per noi.
❮❮ Non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per capirsi, basta l’amore ❯❯
Arrivati in Albania io, i miei cinque compagni e le loro cinque valigie (la mia ha viaggiato per qualche giorno tra diversi aeroporti) siamo stati accompagnati in un campeggio vicino al mare che avrebbe ospitato 75 ragazzi con disabilità dai 20 anni in su (i più grandi ne avevano quasi 60), per le loro vacanze estive. Non era esattamente quello che ci aspettavamo: le stanze erano semplici container o baracche di legno, avremmo mangiato sotto un tendone e avremmo condiviso i bagni (anch’essi all’aperto) con i ragazzi ospitati. Il fatto che molti parlassero un po’ di italiano ci ha permesso di inserirci in fretta in quella nuova realtà e di condividere delle abitudini che presto sono diventate anche le nostre. Ci si alzava presto, si faceva colazione tutti insieme sotto al tendone e poi subito in spiaggia; pranzo, riposo e di nuovo spiaggia, cena e balli. Ogni giorno. Non avevamo compiti specifici perché c’erano dei cuochi per i pasti, mentre gli educatori si occupavano della cura personale dei ragazzi.
Ma dopo poco questa routine, immodificabile perché molto importante per i ragazzi, ha iniziato a essere pesante. Nel cammino svolto durante l’anno “sale della terra” e “luce del mondo” sono stati il filo conduttore e il simbolo di tutto il percorso; ma come potevamo essere sale e luce in questa situazione? Ci sembrava di non fare nulla: li ascoltavamo, scherzavamo, ballavamo, giocavamo, ma era abbastanza?
La risposta ci è arrivata presto.
❮❮ Abbiamo continuato ad essere grati l’uno per l’altro: con semplici parole, abbracci o risate ci siamo aiutati a vicenda a superare qualsiasi difficoltà, rendendo unico ogni momento passato insieme. ❯❯
Dopo la prima settimana ci siamo allontanati dal campeggio per un weekend. Quando siamo tornati avevamo nel cuore un entusiasmo nuovo e anche una strana sensazione: ci sembrava che stessimo tornando a casa. Appena varcato il cancello i ragazzi ci sono corsi incontro dicendoci (o facendoci capire come meglio potevano) che gli eravamo mancati e che il campo senza noi era più triste. Anche gli educatori e i responsabili ci hanno detto che erano mancati l’entusiasmo e l’affetto degli “italiani”. Ancora commossi da quell’accoglienza ci siamo seduti ai nostri soliti posti per la cena: eravamo a casa. Quella sera abbiamo capito le parole che Rroc, custode volontario e “nonno” del campo, ci aveva detto la prima sera per tranquillizzarci: «Non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per capirsi, basta l’amore».
Nei giorni seguenti ci siamo accorti che la routine non era più un peso: significava semplicemente condividere tutto, imparare a stare ai tempi di qualcun altro rallentando i nostri. Quella realtà era diventata una sorta di normalità: non ci sorprendevamo più se qualcuno ci chiedeva di fargli una foto ogni due minuti, quando qualcuno iniziava improvvisamente a ballare o ci raccontava la stessa storia per la trentesima volta. Non ci sembrava più strano tenere una lunga conversazione in due lingue diverse senza capire neanche una parola, o camminare avanti indietro senza dire nulla per più di un’ora e nemmeno se qualcuno rubava a un pescatore un pesce appena preso.
C’erano altre cose che ci stupivano.
Erano l’affetto che i ragazzi ci chiedevano continuamente e tutto l’amore che erano in grado di darci, gratuitamente, senza pretendere nulla in cambio. Ci sorprendevamo di come fosse facile comunicare e della sensibilità che dimostravano certi ragazzi, che intuivano le nostre emozioni con un solo sguardo, senza bisogno di dirsi nulla. Ci siamo sempre meravigliati dei volontari Rroc e Rosa, sua moglie, che trattavano tutti i ragazzi come veri nipoti e del modo in cui gli educatori professionisti si prendevano cura di tutti. Ha continuato a emozionarci il sorriso di Ardit, ospite al campeggio, mentre raccontava dell’amore che si sente nella sua casa-famiglia (per lei solo Famiglia). E noi compagni di missione abbiamo continuato ad essere grati l’uno per l’altro: con semplici parole, abbracci o risate ci siamo aiutati a vicenda a superare qualsiasi difficoltà, rendendo unico ogni momento passato insieme.
Forse dopo tanti mesi l’abbiamo capito “quanto basta”: quanto basta per essere gruppo, per divertirsi, per sentirsi a casa; quanto basta per comunicare, per amare, per sentirsi amati; quanto basta per stare, per stare bene e per ripartire.
di Ilaria Soresi